CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 23 NOVEMBRE 2017, N. 27950
Pubblico impiego privatizzato – Lavoro a termine – Stabilizzazione – Anzianità pregressa – Riconoscimento – Fondamento – Identità delle mansioni –Rilevanza.
In materia di impiego pubblico privatizzato, al lavoratore collocato in ruolo a seguito della procedura di stabilizzazione prevista ex l. n. 296 del 2006, deve essere riconosciuta l’anzianità di servizio maturata precedentemente all’acquisizione dello “status” di lavoratore a tempo indeterminato, allorché le funzioni svolte siano identiche a quelle precedentemente esercitate nell’ambito del contratto a termine, non potendo ritenersi, in applicazione del principio di non discriminazione, che lo stesso si trovasse in una situazione differente a causa del mancato superamento del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della P.A., mirando le condizioni di stabilizzazione fissate dal legislatore proprio a consentire l’assunzione dei soli lavoratori a tempo determinato la cui situazione poteva essere assimilata a quella dei dipendenti di ruolo.
Svolgimento del processo
che con sentenza in data 27.4.2012 la Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima città che, applicato il principia di non discriminazione, ha accertato il diritto di D.S.M., dipendente del CNR assunta a seguito di procedura di stabilizzazione, al riconoscimento della anzianità maturata nel precedente quinquennio in cui il rapporto di lavoro si era svolto a tempo determinato;
che avverso tale sentenza ha proposto ricorso il CNR affidato a quattro motivi, al quale ha opposto difese la D.S. con controricorso;
che è stata depositata memoria ex art. 380 bis c.p.c., da D.S.M.
Motivi della decisione
Che:
1. 2. con il primo ed il secondo motivo di ricorso, il CNR denuncia la violazione e falsa applicazione della direttiva n. 1999/70/CEE e del D.Lgs.6 settembre 2001, n. 368, ai sensi dell’art. 360c.p.c., n. 3, affermando l’erroneità della decisione del giudice di merito, che avrebbe omesso di considerare la mancanza di presupposti per il riconoscimento di effetti diretti alla direttiva in esame ed erroneamente interpretato la direttiva medesima in punto di divieto di discriminazione, applicabile, ad avviso del ricorrente, solo ai lavoratori a tempo determinato e non anche ai lavoratori a tempo indeterminato, in precedenza impiegati a tempo determinato;
3. 4. con il terzo e quarto motivo di ricorso, il CNR deduce l’omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, non avendo i giudici di merito tenuto alcun conto delle deduzioni dell’ente, volte a dimostrare la esistenza di ragioni oggettive, rinvenibili nella natura della attività di ricerca per specifici programmi e con specifici requisiti professionali, la L. 7 agosto 1997, n. 266, ex art. 5, comma 2, tali da escludere l’applicabilità al caso di specie della normativa comunitaria. Le suddette ragioni, ad avviso del ricorrente, avrebbero consentito di escludere la sussistenza di discriminazione nella mancata considerazione dell’anzianità di servizio maturata nel serviziopreruolo, in un successivo e diverso rapporto di lavoro con lo stesso ente, non costituente né proroga né prosecuzione del primo;
1.1. 2.1. 3.1. e 4.1. i motivi di ricorso, in virtù della loro connessione, possono essere trattati congiuntamente. Il collegio ritiene infondate le censure in esame, in quanto l’immediata applicabilità della clausola 4 della direttiva europea 1999/70/CE, riguardante il principio di non discriminazione, è stata ripetutamente affermata dalla Corte di Giustizia ed, ultimamente, tale principio è stato chiaramente espresso da questa Corte nelle numerose pronunce in materia di contratti a tempo determinato nel settore scolastico (explurimis, Cass. n. 22558 del 2016) secondo le quali “la interpretazione delle norme eurounitarie è riservata alla Corte di Giustizia, le cui pronunce hanno carattere vincolante per il giudice nazionale, che può e deve applicarle anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa. A tali sentenze, infatti, siano esse pregiudiziali o emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto della Unione Europea, non nel senso che esse creino “ex novo” norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia “erga omnes” nell’ambito dell’Unione.
Sul principio di non discriminazione, la Corte di Giustizia ha evidenziato che:
a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicché la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C-268/06, Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10RosadoSantana);
b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137 n. 5 del Trattato (oggi 153 n. 5), “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorché proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42);
c) le maggiorazioni retributive che derivano dalla anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C-177/14,RegojoDans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata);
d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, né rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perché la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (RegojoDans, cit., punto 55 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C-302/11 e C-305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C-393/11,Bertazzi);
la sentenza del 18.10.2012 della Corte nelle cause riunite da C-302/11 a C-305/11 Valenza + 4, con riguardo al mancato riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata precedentemente al collocamento in ruolo a seguito della procedura di stabilizzazione prevista dalla L. n. 296 del 2006, ha affermato:
– non risulta dal testo della clausola 4 dell’accordo quadro, né dal contesto in cui si colloca che essa cessi di essere applicabile una volta che il lavoratore interessato abbia acquistato lo status di lavoratore a tempo indeterminato, infatti gli obbiettivi perseguiti dalla direttiva 1999/70 e dall’accordo quadro, diretti sia a vietare le discriminazioni, sia a prevenire gli abusi risultanti da contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione depongono in senso contrario (sentenza Rosado Santana);
– la verifica della comparabilità delle situazioni al fine di evitare la discriminazione, spettante all’autorità giudiziaria dello Stato membro, va effettuata con riguardo alla natura delle funzioni –se esse, successivamente alla immissione in ruolo, siano identiche a quelle precedentemente esercitate nell’ambito dei contratti a termine – non potendo ritenersi che le lavoratrici si trovino in una situazione differente a causa del mancato superamento del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della pubblica amministrazione, dal momento che le condizioni per la stabilizzazione fissate dal legislatore nazionale nella normativa controversa, le quali concernono rispettivamente la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato e il requisito di essere stati assunti a tale scopo mediante una selezione concorsuale o comunque prevista dalla legge, mirano appunto a consentire la stabilizzazione dei soli lavoratori a tempo determinato la cui situazione può essere assimilata a quella dei dipendenti di ruolo;
sulla base di tali principi il collegio osserva che in questa sede il CNR, pur affermando l’esistenza di ragioni oggettive a suo dire idonee a giustificare la diversità di trattamento, ha fatto leva su circostanze che prescindono dalle caratteristiche intrinseche delle mansioni, le quali sole avrebbero potuto legittimare la disparità. Ha insistito, infatti, sulla natura non di ruolo del rapporto di impiego e sulla novità del contratto a tempo indeterminato rispetto al precedente nonché sulle modalità di reclutamento del personale nel settore della ricerca e sulle esigenze che il sistema mira ad assicurare;
le “ragioni oggettive” richiamate nella clausola 4, attengono, invece, alle condizioni di lavoro che contraddistinguono i due tipi di rapporto in comparazione, in ordine alle quali il ricorrente ha affermato (quarto motivo di ricorso) che “le attività di ricerca presuppongono una lunga maturazione dei ricercatori attraverso esperienze effettuate con attività di ricerca necessariamente svolta nell’ambito di rapporti a tempo determinato, tanto che l’esperienza specifica almeno triennale costituisce requisito per l’accesso al concorso per l’inquadramento nel profilo di Ricercatore di 3^ livello ... ne consegue che l’instaurazione di rapporti di lavoro dei ricercatori a tempo indeterminato del CNR (come negli altri enti del comparto) è sempre preceduta da un periodo almeno triennale di esperienza maturata con rapporti di lavoro a termine”. Dalle stesse deduzioni del ricorrente risulta, dunque, che le mansioni, sia nel corso del rapporto a tempo determinato, sia nel corso del rapporto a tempo indeterminato sono quelle di ricercatore, pur essendo le prime svolte in una fase formativa del lavoratore, sicché manca, nella specie, l’allegazione di circostanze idonee a legittimare un trattamento difforme;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% sui compensi professionali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 12 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2017.
1. L'ambito di applicazione del principio di non discriminazione del lavoratore a termine nell'elaborazione della Corte di Giustizia - 2. L'estensione degli effetti del principio di non discriminazione, dalle successioni di contratti alla stabilizzazione del rapporto. - 3. La diversa rilevanza dell'applicazione estensiva nell'impiego privato e pubblico - 4. L'incidenza dell'applicazione estensiva sul processo di comparazione e sulla facolta' di deroga alla parita' di trattamento - NOTE
La pronuncia in commento afferma la regola per cui, in forza del principio di non discriminazione, al dipendente pubblico che abbia acquisito, mediante procedura di stabilizzazione, lo status di lavoratore a tempo indeterminato, deve essere riconosciuta l’anzianità di servizio maturata con precedenti contratti a termine intercorsi con la stessa amministrazione per lo svolgimento di identiche mansioni. La regola è stata poi ribadita dalla Suprema Corte per l’ipotesi dell’assunzione definitiva conseguente al superamento di concorso [1]. La conclusione si colloca nel solco della articolata ricostruzione offerta dalla giurisprudenza comunitaria in merito alla portata del divieto di discriminazione dei lavoratori a termine, sancito – sia in generale che con specifico riferimento al computo dei periodi di anzianità – dalla clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 99/70 Ce. La disposizione, come noto, in effetti impone una vera e propria parità di trattamento col lavoratore a tempo indeterminato comparabile, vietando trattamenti meno favorevoli per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a termine, salvo che sussistano ragioni oggettive giustificative di una deroga. In sintesi, la Corte di Giustizia ha finora affermato che: a)l’accordo quadro si applica al lavoro a termine alle dipendenze di amministrazioni o enti pubblici anche per quanto riguarda il principio di non discriminazione[2], mentre è irrilevante che un impiego sia qualificato come “di ruolo” dalla normativa nazionale [3]; b) la clausola 4 dell’accordo quadro è incondizionata e sufficientemente precisa per poter essere invocata, nei confronti dello Stato membro, dai dipendenti pubblici con rapporti di lavoro temporaneo[4], con disapplicazione della norma interna contrastante e riconoscimento del diritto rivendicato da parte dei giudici nazionali[5]; c) la nozione di “condizioni di impiego” prevista dalla clausola 4 dell’accordo quadro va interpretata in senso estensivo, includendo, ai fini del divieto di discriminazione, ogni elemento della retribuzione da concedere “nella stessa misura” riconosciuta al lavoratore a tempo indeterminato[6]; d) il divieto di discriminazione in esame si applica rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili, secondo la definizione proposta dalla clausola 3, punto 2, dell’accordo [continua ..]
Rispetto alle indicazioni di derivazione sovranazionale, ricorrendo le altre condizioni sopra ricordate, il caso di specie si segnala perché la Cassazione è chiamata ad applicare il principio di non discriminazione nella sua espressione dinamica, cioè in relazione alla sua capacità di proiezione nel tempo. Occorre premettere che nella materia del lavoro a termine la scelta, peraltro non scontata, di estendere l’efficacia del principio di non discriminazione oltre la comparazione statica – cioè limitatamente al periodo di vigenza del singolo rapporto di durata predeterminata [12] – risulta importantissima perché si salda sistematicamente all’altro obiettivo comunitario di contrasto agli abusi nelle successioni contrattuali, offrendo un supporto indiretto all’effettività delle misure prevenzionistiche e quindi accentuando la coerenza e razionalità dell’intero impianto normativo. La soluzione ha così permesso di ritenere discriminatoria, rispetto ai rinnovi contrattuali del settore scolastico, l’attribuzione a ciascun contratto a termine del solo trattamento iniziale previsto dalla fonte collettiva per i dipendenti a tempo indeterminato, in quanto ritenuta contrastante con l’anzianità di servizio, rilevante ai fini della progressione stipendiale, maturata dallo stesso lavoratore con precedenti e ripetuti rapporti a termine [13]. Peraltro questa applicazione del principio di non discriminazione riguarda soltanto i rapporti a tempo determinato, stipulati per identiche mansioni, succedutisi senza una rilevante e sostanziale soluzione di continuità, con ciò intendendosi, almeno secondo una più recente pronuncia relativa al comparto sanità, le fattispecie caratterizzate dal rispetto degli intervalli temporali minimi di non lavoro [14]. Il che circoscriverebbe l’efficacia espansiva del principio alle sole successioni di contratti in senso stretto, in linea con quanto consentito dalla direttiva comunitaria [15] ma molto meno con la attuale disciplina generale interna, che invece, seppur ad altro scopo, include nella nozione di successione qualsiasi contratto a termine intercorso col medesimo datore di lavoro, indipendentemente dai periodi di interruzione tra due contratti. Pertanto è plausibile che, sul versante del divieto di discriminazione, si riapra il dibattito (sopito [continua ..]
Questa peculiare capacità espansiva del principio di non discriminazione riguarda il lavoro a termine nell’impiego privato e in quello pubblico. Tuttavia è nel secondo ambito che essa è destinata ad incidere maggiormente, ed anzi con effetto potenzialmente moltiplicatore imputabile al divieto di trasformazione dei contratti a termine illegittimi. Invero nel settore privato resta fermo, appunto a pena di conversione, il limite di durata massima consentita di lavoro a termine col medesimo datore di lavoro, ora ridotto da trentasei a ventiquattro mesi, con conseguente modesta utilità dell’applicazione del principio di non discriminazione sia rispetto alle successioni di contratti, sia in relazione alla eventuale stabilizzazione del rapporto. Peraltro nell’area del lavoro a termine legittimo il problema non riguarda la trasformazione della durata del contratto nel corso o alla scadenza del rapporto a termine, con cui viene normalmente mantenuta la anzianità già maturata, bensì solo l’eventuale assunzione a tempo indeterminato intervenuta dopo la cessazione del contratto (o dei contratti) a tempo determinato. Qui può operare, nei limiti già esaminati, la forza espansiva del principio di non discriminazione, peraltro senza possibilità di rinunciare, in via transattiva ed in cambio dell’assunzione definitiva, all’incidenza sul successivo rapporto dell’anzianità già maturata, non trattandosi di un diritto disponibile bensì, come già rilevato, di fatto costitutivo di diritti futuri [18]. Di contro, nell’area del lavoro privato a termine illegittimo, quando opera la sanzione della costituzione del rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex tunc – adesso configurabile, oltre che per l’assenza di forma scritta e per la violazione dei divieti, anche per la violazione del regime causale parzialmente reintrodotto dal D.L. n. 87/2018 – risulta travolto il presupposto stesso di applicazione del principio di non discriminazione, cioè l’esistenza di un rapporto a termine. Pertanto il problema della rilevanza attribuibile ad un pregresso periodo di lavoro a termine legittimo può porsi (ricorrendo l’identità di mansioni e la sostanziale continuità dei rapporti) solo rispetto ad un rinnovo illegittimo, ovvero per altre ipotesi, nella prassi [continua ..]
A fronte dell’esteso ambito di efficacia attribuito al principio di non discriminazione, è plausibile che il contenzioso in materia si incentrerà sulla possibilità di derogare al relativo divieto, come è consentito dalla clausola 4 dell’accordo quadro, anche in relazione all’adozione di diversi criteri di calcolo dell’anzianità di servizio, qualora sussistano ragioni o motivazioni oggettive. Quanto ai margini della deroga, però, la Corte di Giustizia – fermo il limite della rimessione ai giudici domestici della verifica concreta – ha finora offerto un’interpretazione non solo tendenzialmente restrittiva [22], ma anche piuttosto equivoca. Ci si riferisce, in particolare, alla relazione che intercorre tra il processo di comparazione, quale accertamento logico prioritario, e la valutazione delle eventuali ragioni di deroga al principio, che sarebbe appunto consentita soltanto quando la comparazione abbia dato un riscontro positivo [23]. Ma il fatto è che, se il processo di raffronto per stabilire l’identità o similitudine del lavoro prestato a termine con quello svolto a tempo indeterminato si fonda su fattori come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e quelle di impiego, risulta poi difficile, nella verifica del giudice interno conseguente all’accertamento positivo, giustificare eventuali deroghe al divieto di discriminazione se ed in quanto collegate alla particolare natura delle mansioni da svolgere [24] e alle caratteristiche che le contraddistinguono. Si tratterebbe, in sostanza, di effettuare una delicatissima opera di distinzione rispetto ad attività che, seppur ai fini della comparazione, sono già state ritenute identiche o simili a quelle di un lavoratore a tempo indeterminato. Ne deriva che, quanto più si allarga il concetto di lavoro simile o analogo utile per la comparazione, tanto più si restringe lo spazio delle ragioni giustificative della deroga al principio di non discriminazione. Peraltro la questione è destinata ad accentuarsi rispetto all’applicazione del principio nella sua proiezione temporale. Come già rilevato, infatti, in questa prospettiva assume rilevanza decisiva la configurazione di un rapporto sostanzialmente continuativo alle dipendenze dello stesso datore di lavoro, sebbene (almeno inizialmente) frazionato in più rapporti a [continua ..]