Il contributo analizza criticamente una recente decisione del Tribunale di Ravenna in materia di responsabilità disciplinare del dipendente pubblico. Il fulcro della problematica viene individuato nella tutela del lavoratore dall’autoincriminazione, nel suo rapporto con il principio della concentrazione del procedimento disciplinare e con la regola che impone la terzietà del soggetto (l’U.P.D.) competente ad avviare e a concludere la relativa azione.
This contribution analyzes a recent judgment of the Tribunal of Ravenna in matter of disciplinary liability of the public servant. The crux of the issue lies in the protection of the employee from self-incrimination, in connection with the principle of “concentration” of the disciplinary proceedings as well as with the rule which mandates the independence of the subject (the so called “U.P.D.”) entrusted with the commencement and with the conclusion of the relative action.
1. Riepilogo dei fatti di causa - 2. La tutela dall’auto-incriminazione del (non ancora) incolpato e la concentrazione del procedimento disciplinare - 3. La questione circa la (ir)rilevanza disciplinare della consultazione dei fascicoli conservati presso l’ufficio sequestri e del successivo diverbio con la relativa responsabile - 4. Segue. Brevi rilievi critici - NOTE
La sentenza in commento consente di riflettere sulle funzioni del procedimento disciplinare e sulle garanzie difensive appannaggio del pubblico dipendente che venga accusato della commissione di un’infrazione delle regole di condotta vigenti presso l’amministrazione datrice di lavoro. Nel caso di specie, il Tribunale di Ravenna è stato investito della questione circa la validità della sanzione disciplinare disposta nei confronti di un agente della polizia municipale, il quale, assieme ad altro collega (parimenti sanzionato), aveva elevato una sanzione amministrativa nei confronti di un cittadino inglese, residente in Italia, sorpreso a circolare nel territorio nazionale all’interno di un veicolo che recava una targa straniera e che veniva per questo sottoposto nell’occasione a sequestro. Essendosi dopo pochi giorni lo stesso agente imbattuto nel medesimo veicolo, regolarmente circolante su strada, egli si era immediatamente recato presso l’ufficio sequestri della Polizia Municipale presso la quale prestava servizio, al dichiarato fine di chiedere delucidazioni sull’accaduto. Avendo trovato l’ufficio temporaneamente sguarnito, il dipendente prendeva autonomamente possesso del fascicolo e si accingeva a fotocopiare le parti dello stesso relative al dissequestro del veicolo in questione, nonostante le rimostranze della responsabile dell’ufficio, nel frattempo sopraggiunta. Informata dell’accaduta, la Comandante della Polizia Municipale ordinava al vigile di redigere una duplice relazione, avente ad oggetto, da un lato, il sequestro del veicolo, dall’altro lato, l’episodio concernente il relativo fascicolo ed il diverbio occorso con la collega responsabile dell’ufficio sequestri. Il lavoratore si rifiutava di ottemperare all’ordine, sottolineando l’irritualità della richiesta dell’amministrazione, anche rispetto alle prassi in vigore nell’ufficio, non senza manifestare i suoi dubbi sulla correttezza del dissequestro del veicolo de quo. A seguito di tali fatti, pressoché pacifici (v., però, infra), al dipendente venivano contestati i seguenti comportamenti, ritenuti violativi degli obblighi di diligenza e di obbedienza previsti dalla contrattazione collettiva (CCNL Funzioni Locali 2016-2018), dal Codice di Comportamento dei Pubblici Dipendenti (d.P.R. n. 62/2013) e dal Regolamento del Corpo della Polizia Municipale in [continua ..]
A proposito della richiesta (recte, dell’ordine) di redigere la duplice relazione sul sequestro e sull’accesso del dipendente al relativo fascicolo, il Giudice osserva innanzitutto che si trattava di fatti già documentati e sostanzialmente pacifici tra le parti (visti, da un lato, il verbale di sequestro, e, dall’altro lato, la segnalazione della collega responsabile dell’ufficio sequestri) e che, dunque, non vi era la necessità di alcuna ulteriore attività istruttoria sull’accaduto. In presenza di una “notizia di infrazione” completa e perciò idonea a consentire la formulazione dell’incolpazione [1], l’Amministrazione non avrebbe dovuto indugiare nel trasmettere immediatamente gli atti all’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari ex art. 55-bis, c. 4, d.lgs. n. 165/2001. Nel porre il soggetto che aveva “fatto emergere una problematica disciplinare” nella condizione di auto-incriminarsi, la richiesta dell’amministrazione avrebbe violato le norme sul procedimento disciplinare: in assenza di alcuna circostanza da chiarire, il diniego dell’incolpato sarebbe stato vieppiù giustificato, in applicazione del principio, mutuato dal diritto (processuale) penale [2], del “nemo tenetur se detegere” (altresì noto come “nemo tenetur”), il quale costituisce la proiezione necessaria, nel campo del “diritto punitivo” in generale, del diritto di difesa garantito dall’art. 24, c. 2, Cost., dall’art. 6, c. 3, CEDU e dall’art. 47 CDFUE [3]. Ad avviso del Giudice, la convenuta avrebbe sostanzialmente posto il lavoratore davanti all’alternativa tra il rendere dichiarazioni potenzialmente rilevanti ai fini del procedimento disciplinare e l’incriminazione che sarebbe potuta derivare dalla diversa scelta dell’incolpato di rendere dichiarazioni false o reticenti in un atto pubblico (ossia nella relazione alla quale era stato chiamato dal Comando) [4], al fine di sottrarsi alla responsabilità disciplinare. Non solo. Le stesse dichiarazioni, aggiunge il Tribunale di Ravenna, avrebbero potuto venire in rilievo pure in sede disciplinare, dando luogo ad una proliferazione delle imputazioni, considerato che a quelle aventi ad oggetto le condotte “principali” si sarebbero aggiunte quelle riguardanti le condotte strumentali all’occultamento delle [continua ..]
Come già ricordato, la seconda contestazione elevata nei confronti del ricorrente aveva ad oggetto l’accesso dello stesso all’ufficio sequestri e la presa visione, oltre alla parziale fotocopiatura, della pratica concernente il più volte citato veicolo circolante in Italia con targa straniera. Il Tribunale di Ravenna ha recisamente escluso ogni rilevanza disciplinare di tale condotta, mostrandosi sin troppo garantista nel ricondurre il comportamento ad un legittimo interesse di un agente della Polizia Municipale alla comprensione delle ragioni tecniche sottese al dissequestro di un (o, meglio, del) veicolo. In sostanza, secondo il Giudice, si sarebbe trattato di un gesto animato da un puro spirito di servizio ispirato dal comprensibile, se non proprio commendevole, desiderio di approfondire una delicata questione normativa, e non già, come invece prospettato nella ricostruzione dell’amministrazione convenuta, dall’intento di far luce direttamente sulle presunte irregolarità commesse dal datore di lavoro, al fine ultimo di poterle esporre poi pubblicamente. In proposito, il Tribunale di Ravenna sorvola sulla non perfetta coincidenza tra la ricostruzione dell’episodio in fatto offerta dal ricorrente, che ha sostenuto di avere semplicemente “intravisto” e, quindi, consultato il fascicolo, e della responsabile dell’ufficio sequestri, la quale ha invece dichiarato di aver sorpreso il collega a “rovistare” nella stanza alla ricerca di un fascicolo che, evidentemente, non era così agevole “intravedere”. Per quanto non si trattasse di atti secretati o riservati, appare arduo negare ogni rilievo disciplinare al comportamento in questione, dal quale era derivato pure un diverbio, sia pure senza accertate conseguenze, con la collega. Di converso, la ricostruzione del Giudice sembra focalizzarsi interamente sul tentativo dell’amministrazione di “fermare sul nascere”, attraverso lo “stratagemma” della richiesta di una relazione dal contenuto potenzialmente rilevante sul piano penale, le censure del lavoratore rispetto al provvedimento di sequestro (o, meglio, di dissequestro) dal quale alla convenuta sarebbero potute eventualmente derivare conseguenze spiacevoli, a livello di clima interno e di reputazione esterna.
Dalla pronuncia in commento è possibile ricavare un’immagine del ricorrente quale dipendente solerte e zelante a tal punto da farsi carico personalmente della regolarità dell’azione amministrativa e, soprattutto, da “gettare le ombre” che avrebbero poi provocato la “scomposta” reazione del Comando, correttamente censurata nella pronuncia in commento. Verrebbe, tuttavia, da chiedersi se l’atteggiamento del dipendente risulti corretto non tanto o non solo nei riguardi del proprio datore di lavoro, quanto, se non soprattutto, nei confronti dei propri colleghi e della stessa collettività. Pur senza pretermettere gli effetti della c.d. “privatizzazione” del lavoro pubblico in punto di obblighi delle parti di un rapporto dalla natura ormai indiscutibilmente contrattuale [9], non si può negare la doverosa tensione del comportamento dovuto dal lavoratore pubblico verso la qualità del clima organizzativo e dei servizi erogati ai cittadini, le quali trovano non a caso un ampio riconoscimento nei Codici di comportamento delle singole amministrazioni, così come in quello generale (d.P.R. n. 62/2013) [10]. Non pare, del resto, scontato che un approccio marcatamente giustizialista possa dirsi coerente con lo spirito di collaborazione richiesto al funzionario pubblico e, segnatamente, ad un agente della polizia municipale. Piuttosto, come si legge all’art. 13 del Regolamento del Corpo (riportato in motivazione e, anteriormente, posto a fondamento dell’imputazione di causa), il comportamento degli agenti di polizia municipale deve essere improntato alla cortesia ed al senso di responsabilità e gli stessi devono “astenersi da condotte che arrechino pregiudizio al rapporto tra i cittadini, l’amministrazione e il corpo”. L’accesso, più o meno “clandestino”, all’ufficio sequestri, la consultazione del fascicolo “invito domino” e, soprattutto, il successivo diverbio con la collega non sembrano porsi in linea con le menzionate prescrizioni, per quanto non si tratti di comportamenti di rilevanza tale da giustificare l’irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione, che appare quindi senz’altro sproporzionata. D’altro canto, lo stesso ricorrente aveva chiesto, sia pure in via gradata, la derubricazione ex officio della sanzione disciplinare nel rimprovero [continua ..]