1. La difficile gestione del personale e la natura della flessibilità nel comparto sanità - 2. L'intricato quadro del contratto a termine in sanità: i punti deboli - 3. Segue: l'abuso del contratto a termine e la non conversione in rapporto a tempo indeterminato: un problema di - 4. Segue: una diversa prospettiva: l'(in)eguale effettività delle sanzioni - 5. I rimedi "equilibrativi" del legislatore: le procedure di stabilizzazione - 6. Segue: i nodi irrisolti delle stabilizzazioni - 7. Conclusioni - NOTE
Il “mito della stabilità del dipendente pubblico” [1] negli ultimi anni sembra essere messo in discussione dall’aumento del ricorso agli istituti flessibili anche nel pubblico impiego e dall’instaurazione di cattive prassi tradottesi, spesso, in un uso distorto degli stessi. A darne conferma sono non soltanto le esigenze di riorganizzazione del personale e di contrasto alla precarietà – sfociate recentemente nel D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75 [2] – quanto, soprattutto, i dibattiti sull’adeguatezza del sistema sanzionatorio nei casi – sempre più frequenti – di abuso del contratto a termine nel pubblico impiego. Dibattiti che acquistano più rilevanza in settori, come quello scolastico [3] o sanitario, in cui la flessibilità è la tecnica organizzativa prevalente per modulare gli organici in quanto più idonea a soddisfare al contempo esigenze strutturali e congiunturali [4], ponendosi così al limite tra fisiologia e patologia. In questa prospettiva, lo studio del comparto sanitario [5] permette di vagliare la tenuta delle norme del pubblico impiego in materia, essendo utilmente considerato come “campo elettivo di sperimentazione di moduli gestionali flessibili” [6]. Esso è particolarmente favorevole allo sviluppo di tali modelli in virtù delle sue caratteristiche, tipiche delle aziende di servizi: alta intensità di qualità e conoscenze personali, elevata autonomia professionale, personalizzazione e differenziazione delle prestazioni offerte all’utenza [7]. Allo stesso tempo, però, diventa terreno fertile di “tecniche di raggiro” del blocco del turn over [8]: di escamotage, quindi, volti a far fronte alle esigenze – ordinarie – di dotazioni organiche stabili, di consolidamento delle professionalità, nonché di costante erogazione dei servizi essenziali a tutela del diritto alla salute. In passato, peraltro, già si era evidenziato come la gestione del personale sanitario, oltre a essere basata su logiche giuridiche burocratiche, sia stata influenzata da condizionamenti, richieste e tempi del mercato del lavoro [9]; in particolar modo, dal processo di privatizzazione e dalla solita e annosa questione della sostenibilità finanziaria [10]. [continua ..]
Come già anticipato, le ipotesi di legittimità del contratto a termine sono tipizzate nel “miscuglio” di normative generali e speciali. Significativo, in tale prospettiva, l’art. 29, comma 2, lett. c) D.Lgs. n. 81/15 (“Esclusioni e discipline specifiche”), là dove tiene fuori dal campo di applicazione della disciplina riformata “i contratti a tempo determinato stipulati con il personale, anche dirigente, del servizio sanitario nazionale, ribadendo così la sopravvivenza dell’art. 36, D.Lgs. 165/01. Palesando, ancora una volta [29], «i forti timori di uno sganciamento della disciplina di riferimento da quella generale del lavoro pubblico a favore di un’attrazione all’interno di quella del lavoro privato» [30]. Sganciamento, in ogni caso, già da tempo scongiurato, almeno per via legislativa. Infatti, anche nel comparto in esame [31] – specialmente dopo il superamento della piccola parentesi che disponeva un regime derogatorio dell’art. 36, D.Lgs. 165/01 per i professionisti sanitari [32] – sono fermi i due principi cardine sanciti in ambito di lavoro pubblico: la causalità e l’esclusione della conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato [33]. Ciò sulla base dell’assunto che, al fine di prevenire un uso distorto del lavoro atipico [34], il normale rapporto di lavoro si instaura a tempo indeterminato e ad esso si accede mediante concorso [35]. Il quadro normativo in questo comparto è anche parzialmente più ampio dell’art. 36, D.Lgs. 165/01. Vanno infatti considerate le ipotesi derogatorie dei limiti causali, temporali, di contingentamento e concorsuali del D.Lgs. 502/92 [36] nonché del – “finalmente” rinnovato [37] – contratto collettivo nazionale di lavoro [38]. Tra queste fattispecie, non creano problemi i casi che richiedono fisiologicamente un ampliamento delle causali in virtù delle peculiarità della sanità [39]. A destare perplessità, invece, sono i limiti emergenti dalla disciplina del tutto atipica per i rapporti a tempo determinato dei c.d. medici convenzionati [40]. Essi, in effetti, potrebbero considerarsi, di per sé, un condensato di flessibilità e temporaneità; sebbene poi, in quasi tutte le [continua ..]
Un ulteriore punto debole è dato dall’assenza nel settore pubblico del corollario – idoneo, nel privato a dotare di forza coercitiva il divieto di abuso delle forme flessibili – della conversione in rapporto a tempo indeterminato [50]. Del resto, l’esclusione di tale principio è ribadito, ovviamente, anche nel ccnc sanità 2016-2018. Eppure, proprio questo comparto, ancor più degli altri, aiuta a comprendere i limiti del divieto, anzitutto in un’ottica di funzionalità. Basti pensare ai casi in cui ci si trovi dinanzi a carenze di organico [51] e vi sia necessità di organizzare i servizi sanitari in modo tale da assicurare un adeguamento tra numero delle unità del personale assistenziale e dei pazienti [52], nonché di garantire professionalità consolidate. In secondo luogo, per quanto il meccanismo risarcitorio e di responsabilità del dirigente per dolo o colpa grave [53] possa essere ritenuto adeguato [54] dalla giurisprudenza maggioritaria [55], emergono perplessità in relazione alla (in)sussistenza di un trattamento equivalente tra lavoratori. Tanto, in virtù del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., e, soprattutto, di quello di non discriminazione europeo [56], secondo il quale situazioni analoghe non vanno trattate in modo dissimile o meno favorevole e, al contrario, situazioni diverse non devono essere trattate in egual maniera; a meno che non vi sia una giustificazione obiettiva [57]. Tale questione deve essere messa in rilievo, pur prendendo atto che essa – come evidenziato dalle conclusioni dell’Avvocato Generale del 26 ottobre 2017, per la causa dinanzi alla Cgue C‑494/16 – vada considerata non soltanto in un’ottica di parità del settore del personale, ma anche valutata in base all’eguaglianza delle sorti del “destino differente”, in termini di effettività. Soffermandoci, per adesso, sul primo aspetto, è anzitutto necessario individuare i “paragoni adeguati a poter far sorgere dubbi sul rispetto del principio” [58]; il tertium comparationis. Occorre, quindi, riconsiderare lo status del lavoratore del Ssn, per comprendere se e quando vada ritenuto “analogo”, tanto nel confronto con i dipendenti privati [continua ..]
Pur non limitando la ricerca di situazioni simili all’analisi delle categorie di lavoratori e all’identità delle parti [72] e incentrandosi sulla ricerca della pari effettività delle tutele e delle sanzioni, il problema non sembra trovare soluzione [73]. Ciò perché, concatenandosi i vari aspetti, quale che sia l’approccio adottato, resta perennemente un fil rouge: quello dell’inadeguatezza. Infatti, anche valutando se il fondamento della legittimità della tutela risieda nella “comparabilità degli oggetti, delle cause e degli elementi essenziali” [74] dei regimi, emerge una chiara sproporzione delle sanzioni. Si pensi che a far emergere ostacoli al riconoscimento del danno sono tanto la disciplina dell’onere della prova al fine di ottenere il risarcimento da perdita di chance, quanto la “forza” del risarcimento stesso, nonché la portata dell’indennità forfettaria. Ciò specialmente alla luce delle difficoltà di provare, nonostante le presunzioni [75], le probabilità di vincita di un concorso o la mancanza di opportunità di lavoro a causa di una successione di contratti a tempo determinato [76]. Per di più, la quantificazione del risarcimento per la perdita di chance, non potrebbe limitarsi alla riparazione del danno effettivo, in conformità a quanto previsto dal diritto civile, ma dovrebbe riflettere il valore del posto a tempo indeterminato. In pratica, la sola misura sanzionatoria degli abusi è quella dell’indennità forfettaria prevista nel nostro ordinamento dall’art. 32, comma 5, legge n. 183/10 [77], malgrado la sua natura meramente accessoria. Ciò nonostante, essa stessa non può essere considerata effettivamente dissuasiva né realmente deterrente. Infatti, non solo prescinde dall’effettivo danno e dall’eventuale protrarsi della condotta abusiva ma, per di più, la standardizzazione delle sanzioni [78] non riflette il valore del posto né rispetta il principio di proporzionalità. In aggiunta, la previsione di un limite massimo, oltre il quale non può andarsi nonostante il carattere reiterato degli abusi, accresce il rischio di recidiva. Ciò porta a concludere che le modalità previste sono, anche da questa [continua ..]
Nonostante tutto, l’operazione posta in essere dal legislatore attraverso le stabilizzazioni sembra essere una “scelta più lungimirante rispetto al risarcimento, che lascia il sistema nell’incertezza organizzativa e il personale in uno stato di provvisorietà perenne; una scelta che – va sottolineato – richiede uno sforzo organizzativo e finanziario estremamente impegnativo e che comporta un’attuazione invero peculiare di un principio basilare del pubblico impiego (l’accesso con concorso pubblico), volto a garantire non solo l’imparzialità ma anche l’efficienza dell’amministrazione” [86]. Peraltro, “sul piano funzionale le norme sulla stabilizzazione potrebbero consentire, a costi minimi per l’amministrazione (non dovendo ripetere costose procedure di concorso), di allineare i lembi della situazione di fatto con quella di diritto: di immettere nel circuito del lavoro stabile, non solo lavoratori già previamente vincitori di pubbliche selezioni, ma rodati e formati ampiamente on the job, e nei confronti dei quali le pubbliche amministrazioni hanno, spesso, investito dosi massicce di formazione teorica; lavoratori nei cui confronti si è ampiamente e da tempo stabilizzato il c.d. contratto psicologico (comprensivo di fiducia, affidamento ecc.), ma non quello giuridico” [87]. Pertanto, come evidenziato anche nel D.Lgs. 75/17, art. 20, attraverso tale meccanismo si conciliano le esigenze di superare il precariato, ridurre il ricorso al contratto a termine e valorizzare la professionalità acquisita dal personale a tempo determinato; permettendo, al contempo, alle pubbliche amministrazioni di coprire i vuoti di organico createsi nelle lunghe fasi di blocco delle assunzioni [88]. In ogni caso, i perni di tali procedure sono sempre e comunque l’interesse pubblico, l’effettivo fabbisogno del personale e l’esigenza di contenimento della spesa [89]. Diversamente la deroga si risolverebbe in un privilegio solo a favore di alcuni [90]. Pertanto, “nelle procedure eccezionali di reclutamento del personale pubblico deve essere considerata la meritevolezza di tutela dell’obiettivo che il legislatore ha di mira, al fine di stabilirne un bilanciamento con l’interesse al miglior rendimento della pubblica amministrazione; il quale, in astratto, [continua ..]
Non pochi sono i nodi tuttora irrisolti delle stabilizzazioni. Basti pensare alla prassi di prevedere la legittimazione della proroga dei contratti a termine nei confronti dei lavoratori coinvolti dalla procedura. “Con il primario intento di non provocare soluzioni di continuità nell’erogazione di servizi essenziali di assistenza e di consentire agli aventi diritto di continuare ad assicurare all’offerta sanitaria il loro knowhow nelle more della definizione della procedura di stabilizzazione” [101], la proroga prolunga di fatto la precarietà. Specialmente considerando i notevoli ritardi con i quali vengono attuate le stabilizzazioni. Ritardi confermati, ancora una volta, dalla proroga ex art. 20, comma 10, D.Lgs. 75/17 [102]. Per di più, a creare problemi è il (non) computo dell’anzianità di servizio prestato a termine per i lavoratori stabilizzati [103]. Questo aspetto è un logico corollario del regime di assunzioni mediante stabilizzazioni ed è ciò che ancora permette di distinguere il sottile confine tra la conversione e la neo-assunzione [104]. Del resto, con tali procedure il rapporto di lavoro non può che costituirsi ex nunc e quindi, in assenza di una specifica disposizione normativa, la pregressa attività, in qualunque arco temporale sia stata prestata, non potrebbe automaticamente essere considerata ai fini dell’anzianità di servizio. In tal senso, la stabilizzazione più che essere una “surroga” [105] della mancata conversione dei rapporti a termine, rappresenta una mera opportunità riservata a coloro che – anche se non a tempo indeterminato – già sono stati considerati dipendenti pubblici. Ciò è reso evidente anche dalla previsione del legislatore che ammette la stabilizzazione per i rapporti già cessati, ovvero in relazione a rapporti non continuativi. In ogni caso, come anche riconosciuto dal giudice europeo [106], questo profilo può risultare discriminatorio. Non è eccepibile a tale riflessione un’ipotesi di discriminazione alla rovescia, basata sull’assunto che le procedure di stabilizzazione costituiscano un’eccezione al principio del pubblico concorso. Nemmeno può sostenersi che i dipendenti stabilizzati abbiano [continua ..]
7. Conclusioni Le numerose questioni messe sul tavolo permettono di comprendere come il comparto sanitario rappresenti lo “stress test” della normativa sui rapporti a termine nel pubblico impiego. Esso, infatti, consente perfettamente di far emergere le innumerevoli contraddizioni che, seppur indirettamente, favoriscono un alto tasso di precarizzazione. È palese, del resto, che se da un lato le esigenze di efficienza e flessibilità sono trascurate e limitate dal legislatore, pur costituendo veri e propri obiettivi ai quali ispirare l’organizzazione del personale [118], dall’altro – e in maniera incoerente – non vi sono idonei meccanismi di repressione delle “storture” dei contratti flessibili [119]. In questo contesto, sarebbe ingannevole prospettare come ineccepibile la soluzione, ormai proposta e riproposta, della stabilizzazione. Non è una novità, d’altronde, che spesso tali procedure, soprattutto nel settore della sanità, abbiano operato solo come ammortizzatori sociali e strumenti clientelari [120]. Né che esse non siano volte a tutelare una situazione di legittimo affidamento del lavoratore o a mantenere lo status quo di quelle situazioni soggettive consolidatesi nel tempo. È chiaro, quindi, che la necessità di trovare l’equilibrio tra un’adeguata gestione del personale e un disincentivo all’uso improprio dei contratti flessibili, ha avuto risvolti più che negativi. Probabilmente, anche perché il sistema sanitario italiano non ha un modello di governance assestato [121]. L’irrompere, poi, delle logiche di contenimento finanziario ha complicato il già complesso quadro, dal momento che i vincoli posti a livello nazionale hanno creato dei notevoli ritardi [122], normativi ma non solo, nell’attuazione di un progetto di flessibilizzazione che ab origine avrebbe dovuto rappresentare uno strumento di recupero dell’efficienza amministrativa [123]. Tutto ciò non può che indurci a riflettere, ponendoci dinanzi ad un bivio. Occorre decidere se proseguire per la via tradizionale – con i rischi di inefficacia che ne derivano – o svoltare verso la modernità, connotata da schemi volti, più a fatti che a parole, a tutelare la stabilità e professionalità; ovviamente sempre [continua ..]