Il saggio esamina l’attuale disciplina dei rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare nell’impiego pubblico privatizzato, mettendo in evidenza i principali problemi interpretativi – e le relative soluzioni applicative – che conseguono al superamento della “pregiudiziale penale”, in favore del principio della separazione fra giudizi. L’analisi si sviluppa attraverso la ricostruzione della disciplina di fonte legale e del suo intreccio con le regole integrative dettate dall’autonomia collettiva nella più recente tornata contrattuale. Particolare attenzione è dedicata all’istituto della sospensione cautelare e al problema della restitutio in integrum spettante al lavoratore in conseguenza della sua caducazione.
The essay focuses on the relationship between criminal proceedings and disciplinary measures in the public employment. The main issues – and the related solutions – are highlighted, with reference to the turn from the rule of the preliminary criminal proceedings to the principle of the separation between judgments. The analysis develops through the reconstruction of the legal framework as it has been enriched by the most recent collective bargaining. Particular attention is paid to the cautionary suspension and to the problem of the “restitutio in integrum” due to the worker as a result of its lapse.
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1. Il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare nel sistema delle responsabilità comportamentali dei dipendenti pubblici - 2. Incidente penale e autonomia dei giudizi: la sospensione del procedimento disciplinare come fattispecie residuale nell’art. 55-ter, d.lgs. n. 165/2001 - 3. Le regole sul raccordo tra procedimento penale e procedimento disciplinare - 4. I termini per la continuazione/riapertura del procedimento disciplinare a seguito di sentenza penale irrevocabile - 5. La sospensione cautelare in pendenza di procedimento penale - 6. La sospensione cautelare obbligatoria tra legge e contrattazione collettiva - 7. Sospensione cautelare e restitutio in integrum - NOTE
Il tema dei rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare costituisce uno dei tanti punti di vedetta da cui è possibile osservare il cratere che ormai separa nettamente il modello delle responsabilità comportamentali dei dipendenti pubblici rispetto a quello dei lavoratori privati. Che l’assetto del potere disciplinare abbia subito una torsione progressiva e incrementale nell’ordinamento del lavoro pubblico contrattualizzato, dotandosi di schemi procedimentali in cui le logiche dell’organizzazione amministrativa e della tutela degli interessi generali hanno adombrato l’architettura uniformatrice della privatizzazione, è osservazione sempre più diffusa in sede scientifica [1]. Nessuno ritiene che le riforme susseguitesi nell’ultimo decennio abbiano intaccato il fondamento privatistisco delle prerogative sanzionatorie del datore di lavoro pubblico [2]. Tuttavia, la crescente attenzione del legislatore verso il problema della moralizzazione della p.a. ha incrementato i tratti di specialità della responsabilità disciplinare dei suoi dipendenti, connotando quest’ultima di venature etiche e pulsioni efficientistiche non sempre coerenti con la funzione di controllo dell’esatto adempimento che le è propria [3]. All’esito di questa contaminazione, il sistema disciplinare del lavoro pubblico sembra dialogare con quello del settore privato soltanto per principi generali: quello del giusto contraddittorio, ovviamente, nonché quello della proporzionalità fra infrazione e sanzione (art. 2106 c.c.), operante in forza dell’unico rinvio che l’art. 55, c. 2, d.lgs. n. 165/2001, concede alle regole di diritto comune. Per il resto, i due sistemi corrono su binari paralleli [4]: quello privato si muove ancora oggi sull’agile sequenza statutaria «contestazione-difesa-sanzione», che ha costituito l’ideale terreno di coltura per l’intervento integrativo della contrattazione collettiva sul piano delle garanzie procedurali, oltre che della individuazione degli illeciti e della conseguente graduazione delle pene [5]; quello pubblico ha sfiduciato l’autonomia collettiva, attribuendo alla competenza della norma inderogabile di legge una rigorosa procedimentalizzazione dell’azione disciplinare, affiancata dalla prevalutazione di numerose condotte illecite da punire con il [continua ..]
L’interferenza tra procedimento penale e procedimento disciplinare nell’impiego pubblico va esaminata innanzitutto sotto il profilo del rapporto tra le fonti. La materia è stata a lungo sottoposta all’alternanza fra l’intervento eteronomo e quello negoziale, favorendo una densa stratificazione normativa che solo di recente è stata ricondotta a sistema mediante le regole inderogabili dell’art. 55-ter, d.lgs. n. 165/2001. La disposizione appena citata, come è noto, ha definitivamente superato la regola della «pregiudiziale penale» [11], la quale era stata originariamente apprestata dall’art. 117, d.P.R. n. 3/1957, e successivamente reiterata, quantomeno de facto, anche dalla contrattazione collettiva post-privatizzazione [12]. La disciplina vigente si ipira al principio dell’autonomia fra i giudizi, sancita dalla formula per cui «il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale» (art. 55-ter, c. 1). L’afflato di moralizzazione dei corpi burocratici che ha accompagnato la «Riforma Brunetta» – e che ha sostenuto la produzione normativa di tutto il decennio successivo – ha inteso frenare la prassi del differimento della contestazione disciplinare al termine del procedimento penale, essendosi quest’ultima dimostrata eccessivamente sbilanciata di fronte al dilagare di inchieste giudiziarie per reati commessi dai funzionari pubblici contro le amministrazioni di appartenenza. La linea tracciata dall’art. 55-ter è quella dell’intransigenza verso ogni comportamento del lavoratore che possa ripercuotersi sul vincolo negoziale in seguito al sopraggiungere di una notitia criminis: l’interesse alla pronta rimozione dello stato di incertezza che deriva dal rinvio a giudizio per fatti di reato in grado di incidere sul rispetto dei doveri professionali è ritenuta prevalente sulla presunzione di non colpevolezza dell’imputato, e ciò sia perché la responsabilità disciplinare è ontologicamente diversa da quella penale, sia per la necessità di ripristinare al più presto la fiducia dei cittadini verso le istituzioni lambite da vicende di malaffare. L’avvio dell’iniziativa [continua ..]
Nel sistema dell’autonomia fra giudizi, il raccordo tra gli esiti del procedimento penale e quelli del procedimento disciplinare è assicurato dal blocco normativo composto dai c. 2 e 3 dell’art. 55-ter, d.lgs. n. 165/2001. Le disposizioni in esame recepiscono le regole di cui all’art. 653 c.p.p., così come riscritto dalla l. 27 marzo 2001, n. 97, che a sua volta aveva sovvertito i principi sull’efficacia esterna del giudicato penale risalenti al codice di procedura penale del 1988 [20]. Due sono le ipotesi che vengono in rilievo: – ai sensi del c. 2, «se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l’irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale»; – ai sensi del c. 3, «se il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa». Tra queste due fattispecie se ne colloca una intermedia, riprodotta in fotocopia dalla contrattazione collettiva dei vari comparti, che tiene in considerazione il caso in cui il procedimento disciplinare sia stato sospeso, e il lavoratore venga successivamente prosciolto in sede penale per i medesimi fatti. Nella specie, si prevede che «ove intervenga una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il “fatto non sussiste” o che “l’imputato non lo ha commesso” oppure “non costituisce illecito penale” o [continua ..]
L’art. 55-ter, c. 4, d.lgs. n. 165/2001, chiude il sistema sopra descritto con la previsione di una serie termini per la continuazione del procedimento disciplinare eventualmente sospeso in pendenza di quello penale, ovvero per la riapertura del procedimento disciplinare già concluso, ma il cui esito sia potenzialmente incoerente con il giudicato penale sopraggiunto. La disposizione stabilisce che in tali casi «il procedimento disciplinare deve essere, rispettivamente, ripreso o riaperto, mediante rinnovo della contestazione dell’addebito, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, da parte della cancelleria del giudice, all’amministrazione di appartenenza del dipendente, ovvero dal ricevimento dell’istanza di riapertura». È altresì stabilito che il procedimento debba svolgersi secondo quanto previsto nell’art. 55-bis, con integrale nuova decorrenza del termine di 120 giorni per la sua conclusione. Non vengono dunque computati i giorni utilizzati per concludere il primo procedimento disciplinare non sospeso, né quelli eventualmente intercorsi prima della sua sospensione. Si tratta di termini perentori, il cui mancato rispetto determina la decadenza dall’azione disciplinare. Tanto si desume dall’art. 55-bis, c. 9-ter, che attribuisce natura ordinatoria a tutti i termini sul procedimento disciplinare previsti dagli artt. da 55 a 55-quater, ad eccezione di quelli di apertura e chiusura. È opportuno precisare che, fatto salvo il caso in cui sia il dipendente a formulare istanza di riapertura del procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 55-ter, c. 2, il termine per il rinnovo della contestazione non decorre fintantoché l’amministrazione non abbia ricevuto formale comunicazione della sentenza irrevocabile da parte della cancelleria del giudice penale. Il dies a quo per la riattivazione o per la prosecuzione del procedimento disciplinare si colloca dunque in un momento successivo a quello in cui la sentenza penale è divenuta intangibile, atteso che solo attraverso la comunicazione l’Upd può avere esatta cognizione dei fatti accertati in sede penale e contestarli al dipendente in sede disciplinare [33]. Per la medesima ragione, va escluso che il termine per la riapertura/prosecuzione possa decorrere dalla data di comunicazione del solo dispositivo [34]. Sul punto, va condivisa la prospettata [continua ..]
La compressione della facoltà di mettere in stand by il procedimento disciplinare collegato a fatti per cui procede l’autorità giudiziaria penale è destinata a produrre notevoli ripercussioni sull’istituto della sospensione cautelare del servizio. In seguito alla ridefinizione dei comparti e delle aree dirigenziali dell’ultima tornata, le parti sociali hanno in parte rielaborato le regole previgenti, tenendo conto dell’assetto delineato dall’art. 55-ter, d.lgs. n. 165/2001. È bene precisare che nella materia delle misure cautelari non opera alcuna preclusione all’intervento dell’autonomia collettiva, atteso che queste ultime sono pacificamente sprovviste di contenuto afflittivo [39]. La sospensione temporanea dal servizio nelle more dell’incidente penale si colloca infatti nell’ottica dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa, poiché mira a tutelare l’immagine della p.a. e a garantire la regolare funzionalità degli uffici di fronte al pregiudizio che potrebbe scaturire, in termini di credibilità presso l’opinione pubblica, dalla permanenza del dipendente accusato di un illecito penale [40]. Non vi appartiene invece, almeno di regola, la funzione di prevenzione rispetto alla possibile reiterazione del reato, né è richiesta una valutazione prognostica di colpevolezza sul lavoratore, come invece accade per l’applicazione delle misure cautelari demandate al giudice penale (cfr. ad es. la sospensione cautelare di cui all’art. 289 c.p.p.) [41]. Le regole di fonte collettiva hanno mantenuto la tradizionale articolazione che distingue fattispecie ed effetti della sospensione cautelare a seconda che quest’ultima sia correlata o meno alla pendenza di un procedimento penale. Quando non vi sia interferenza con l’imputazione per fatti di reato, la misura è funzionale all’approfondimento istruttorio su fatti già addebitati al dipendente a titolo di infrazione disciplinare punibile con sanzione non inferiore alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione, e può protrarsi per non più di trenta giorni, con conservazione della retribuzione [42]. Nel caso in cui vi sia interferenza con un procedimento penale, invece, la contrattazione dei diversi comparti e aree contempla sia ipotesi [continua ..]
La contrattazione collettiva contempla infine svariate fattispecie di sospensione cautelare obbligatoria, la maggior parte delle quali trae origine da apposite discipline di legge. Innanzitutto, «il dipendente che sia colpito da misura restrittiva della libertà personale è sospeso d’ufficio dal servizio con privazione della retribuzione per la durata dello stato di detenzione o, comunque, dello stato restrittivo della libertà» [53]. La regola collettiva riproduce quanto già previsto dall’art. 91 del t.u. n. 3/1957, tuttora in vigore per i rapporti di pubblico impiego non contrattualizzato, e trova la sua ragion d’essere nel fatto oggettivo dell’impedimento ad adempiere connesso alla privazione della libertà personale [54]. È bene precisare che il venir meno del provvedimento interdittivo della libertà personale non comporta il diritto all’automatica riammissione in servizio. La p.a. non è infatti obbligata a revocare la sospensione cautelare obbligatoria, potendo decidere se prolungarla, ricorrendo i presupposti della sospensione facoltativa, ovvero se riammettere il dipendente in servizio [55]. I contratti collettivi fanno poi rinvio alle seguenti disposizioni di legge: – art. 7, c. 1, e art. 8, c. 1, l. 31 dicembre 2012, n. 235 (c.d. «Legge Severino»), in tema di sospensione cautelare obbligatoria dei titolari delle cariche di presidente della giunta regionale, assessore e consigliere regionale, amministratore e componente degli organi comunque denominati delle unità sanitarie locali; – l’art. 4, l. n. 97/2001, in tema di sospensione cautelare obbligatoria per condanna, anche non definitiva, e ancorché sia concessa la sospensione condizionale della pena, per i reati di cui agli artt. 314, c. 1, 317, 318, 319, 319-ter, 320 c.p., art. 3, l. 9 dicembre 1941 n. 1383 (peculato, concussione, corruzione per un atto d’ufficio, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari, corruzione di persona incaricata di pubblico servizio, collusione militare). Anche in questo caso, l’intreccio tra le disposizioni citate dà luogo ad alcuni rilievi critici che scaturiscono dal processo di sedimentazione di una pluralità di interventi normativi succeditisi nel tempo, con obbiettivi non sempre coincidenti. Ricostruirne la genesi è [continua ..]
Poiché la sospensione cautelare è un provvedimento di carattere provvisorio e interinale, la sua mancata stabilizzazione attraverso l’esercizio del potere disciplinare ne comporta la caducazione ex tunc [62]. In tale circostanza, il dipendente colpito dalla misura preventiva può ottenere la ricostruzione della posizione retributiva perduta previo conguaglio economico con l’indennità assistenziale medio tempore percepita. Al riguardo, va premesso che il diritto alla restitutio in integrum ha natura retributiva e non risarcitoria, con la conseguenza che dalla somma dovuta al lavoratore non può essere sottratto l’eventuale aliunde perceptum, ivi compreso il trattamento pensionistico [63]. Allo stesso modo, vanno escluse dal conguaglio le indennità o i compensi connessi alla effettiva presenza in servizio o a prestazioni di carattere straordinario, quali la retribuzione di risultato [64], l’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti, e l’indennità per specifici servizi svolti [65]. La tutela ripristinatoria si estende anche al versante previdenziale, determinando sia l’adeguamento contributivo rispetto alla retribuzione piena, sia la valutazione del periodo trascorso in sospensione a fini pensionistici e della erogazione delle prestazioni di fine servizio (TFS/TFR) [66]. I presupposti per il riconoscimento della restitutio in integrum sono stati ampiamente scandagliati dalla giurisprudenza amministrativa e ordinaria, con indirizzi interpretativi sostanzialmente uniformi. Va innanzitutto chiarito che il rimborso delle quote di retribuzione trattenute è precluso (anche nell’ipotesi in cui procedimento disciplinare si sia concluso senza applicazione di alcuna sanzione), nelle ipotesi di sospensione cautelare obbligatoria dovuta alla sottoposizione del lavoratore a misure restrittive della libertà personale [67]. Tale conclusione discende da un’interpretazione rigorosa del principio di corrispettività: quand’anche venga accertato che non sussiste alcuna responsabilità disciplinare (e dunque manchi l’elemento soggettivo minimo della colpa del lavoratore), non è possibile dar corso alla ricostituzione integrale della posizione giuridica ed economica perduta, stante l’intervento di un impedimento oggettivo e assoluto all’adempimento della [continua ..]