Corte d’Appello, sentenza, Sezione Lavoro, 2 agosto 2017, n. 699
Pres. Brusati – Est. Ponterio – xxx (avv. Monegatti) c. Comune di Collecchio
Pedemontana Sociale Azienda Territoriale per i Diritti alla Persona, Unione
Pedemontana Parmense (avv. Giovati, Conti e Castagnetti).
Impiego pubblico - Mobilità fra enti pubblici – Art. 31 D.Lgs. 165/2001-Assegnazione temporanea – Art. 23-bis D.Lgs. 165/2001Passaggio di dipendenti – Trasferimento d’azienda – Cessione del contratto – Illegittimità del trasferimento – Demansionamento – Dequalificazione professionale-Danno patrimoniale
L’art. 31 D.Lgs. 165/2001 non trova applicazione in occasione del trasferimento di personale da un’amministrazione pubblica ad una società di diritto privato, quando oggetto del trasferimento non sia l’attiva svolta, bensì il singolo dipendente incaricato della stessa. In tal caso, la fattispecie dev’essere inquadrata nella cessione di contratto di cui all’art. 1406 c.c., per questo necessitante del consenso del lavoratore ceduto. Nell’ambito delle procedure di esternalizzazione di cui all’art. 31 D.Lgs. 165/2001, lo svuotamento sostanziale delle mansioni svolte dal soggetto trasferito presso la società cessionaria determina la dequalificazione professionale del lavoratore ceduto ex art. 52 del D.Lgs. 165/2001 e giustifica il risarcimento in solido dei danni patrimoniali da quest’ultimo sofferti. Udita la relazione della causa fatta dal Consigliere Relatore dott.ssa Carla Ponterio sulle conclusioni prese dai procuratori delle parti letti ed esaminati gli atti e documenti del processo, ha così deciso: 1. Il tribunale di Parma in funzione di giudice del lavoro, con sentenza n. 227/15, ha respinto la domanda della ricorrente di: Annullamento/disapplicazione della deliberazione della Giunta Comunale del Comune di Collecchio n.45 del 27.3.12 e di annullamento del contratto di trasferimento all’Azienda Pedemontana Sociale del personale retrocesso al Comune di Collecchio, nella parte in cui i datori di lavoro hanno contrattato la cessione del rapporto di lavoro della ricorrente dal Comune all’Azienda citata, senza il suo consenso ed in luogo dell’assegnazione temporanea di cui all’art. 23 bis D.Lgs. 165/01, come avvenuto per il restante personale ceduto dai comuni, in violazione degli artt. 107 D.Lgs. 267/00, 4, 5 e 31 D.Lgs. 165/01, 1406 c.c., mediante adozione di una pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 63 D.Lgs. 165/01; Accertamento del diritto della ricorrente alla reintegra presso il Comune di Collecchio e all’eventuale suo passaggio all’Azienda Speciale Pedemontana in assegnazione temporanea ex art. 23 bis del D.Lgs. 165/01, previo suo assenso; Accertamento in ogni caso dell’annullabilità/inefficacia di ogni clausola/condizione inserita nella “Convenzione tra i comuni di Collecchio, Felino, Montechiarugolo, Sala Baganza, Traversetelo, e l’Unione Pedemontana Parmense per l’attribuzione in titolarità delle funzioni socio assistenziali, socio sanitarie integrate e di committenza di servizi” sottoscritta l’1.7.13 che prevede, in caso di scioglimento dell’Azienda Speciale Pedemontana Sociale il rientro della ricorrente negli organici del Comune di Provenienza in modo diverso da quanto già definito nel contratto di trasferimento del 30.3.12 tra il Comune di Collecchio e l’Azienda Speciale Pedemontana Sociale e comunque in [continua..]1. L’art. 31 del D.Lgs. 165/2001: profili de iure condito e de iure condendo. - 2. La mancata configurabilità dell’assegnazione temporanea di personale - 3. Ius variandi e svuotamento sostanziale delle mansioni nel pubblico impiego: un’ipotesi di ravvicinamento normativo - 4. Danno da dequalificazione professionale: profili sostanziali e onere della prova - Note
Con la sentenza in commento, la Corte d’Appello di Bologna, in accoglimento del ricorso proposto dalla lavoratrice avverso la sentenza n. 227 del 2015 del Tribunale di Parma, si pronuncia in merito alla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 31 D.Lgs. 165/2000. In particolare, si esprime circa l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 2112 c.c. ai trasferimenti di personale da una pubblica amministrazione ad una società di diritto privato, toccando, da ultimo, il tema dello svuotamento di mansioni nel pubblico impiego. In via preliminare, è opportuno ricostruire la vicenda secondo una precisa scansione temporale. Nel caso in commento, la lavoratrice, impiegata dal 1.1.97 presso il Comune di Collecchio con compiti di gestione nell’area dei servizi socio assistenziali, era preliminarmente comandata e successivamente trasferita alle dipendenze di ASP (Azienda di Servizi Pubblici alla persona), ente strumentale all’Amministrazione di provenienza. Presso quest’ultima proseguiva, a decorrere dall’1.1.09, il proprio incarico di responsabile e referente dell’area Adulti Disabili e Fasce Deboli, mantenendo lo status di pubblico dipendente. Nel 2011, al mancato rinnovo del contratto di delega stipulato con ASP seguiva il contestuale trasferimento dei servizi inerenti l’area adulti e disabili all’Azienda Pedemontana Sociale, ente consortile di diritto privato costituito nel 2007 con delibera dello stesso Comune. I servizi oggetto del trasferimento venivano stabilmente affidati, a decorrere dal 1.1.12, alla suddetta Azienda, senza che a ciò conseguisse l’immediato trasferimento della ricorrente, che, anzi, rimase alle dipendenze dell’ASP sino al marzo 2012, pur non svolgendo, di fatto, alcuna mansione di rilievo. Nel tentativo di preservarne l’occupazione, la ricorrente veniva poi retrocessa nell’organico del Comune e contestualmente trasferita, con delibera 45 del 27.3.12 alle dipendenze dell’Azienda Pedemontana Sociale, presso cui veniva adibita a mansioni esecutive, che, pur rientranti nella medesima categoria legale di quelle in precedenza svolte, risultavano in realtà prive di qualsivoglia autonomia gestionale ed organizzativa. Alla ricostruzione della vicenda, segue l’esame della disciplina vigente in materia di trasferimento d’azienda nel pubblico impiego. Nella specie [continua ..]
La seconda questione posta all’attenzione dei magistrati di secondo grado, per la verità dedotta da parte attrice nel primo motivo d’appello, attiene all’impossibilità di estendere la disciplina del trasferimento d’azienda di cui all’art. 2112 c.c. ai casi di applicazione provvisoria del personale pubblico di cui al comma 7 dell’art. 23-bis del D.Lgs. 165/2001. La previsione, introdotta dall’art. 7 del D.Lgs. 145/2002 e successivamente modificata dall’art. 5 del D.L. 7/2005, individua due distinte forme di mobilità, l’una riguardante il collocamento in aspettativa presso organismi pubblici o privati di soggetti espressamente individuati dalla norma[14] (commi 1-6), l’altra relativa all’assegnazione temporanea di personale presso amministrazioni pubbliche o enti privati (commi 7-8). Ciò che vale a distinguere le due ipotesi di passaggio di personale è l’interesse giuridico rilevante sotteso alla norma: in particolare, il collocamento in aspettativa funge da strumento di crescita professionale per l’interessato, consentendogli di svolgere, su propria richiesta, un’esperienza formativa presso un altro organismo, pubblico o privato, a tempo definito[15]. Diversamente, l’assegnazione provvisoria risponde all’esigenza di soddisfare l’interesse dell’amministrazione alla realizzazione “singoli progetti di interesse specifico” per il tramite di “appositi protocolli d’intesa fra le parti” e comunque con il consenso dell’interessato[16]. Nella vicenda in commento, pur risultando pienamente configurabile la fattispecie, ricorrendo per essa i presupposti formali e sostanziali definiti dalla legge, il trasferimento della ricorrente è stato posto in essere dall’amministrazione cedente in violazione degli obblighi assunti con la delibera di trasferimento. Ciò ha determinato il passaggio della dipendente all’ente cessionario, società di diritto privato, e non la sua assegnazione provvisoria presso lo stesso, circostanza che avrebbe consentito il mantenimento del suo status di dipendente pubblico, restando la titolarità del rapporto in capo all’amministrazione cedente. Di qui, la nullità dell’atto di trasferimento, adottato dal Comune contrariamente ai principi di correttezza e buona fede e in violazione delle pattuizioni [continua ..]
Da ultimo, la pronuncia in esame affronta un istituto di assoluto rilievo per l’universo normativo pubblicistico, più volte rimaneggiato dal legislatore con lo scopo di adeguarne progressivamente la disciplina allo schema civilistico[17]: il demansionamento del lavoratore, nella specifica accezione dello “svuotamento di mansioni”. L’espressione è frutto di una pedissequa opera di ricostruzione giurisprudenziale[18], che ha finito per affiancare alla generale fattispecie di cui all’art. 52 D.Lgs. 165/2001, una più specifica ipotesi di dequalificazione professionale, attinente non più alla semplice modificazione delle mansioni in senso “orizzontale”, ma ad un sostanziale depauperamento delle stesse, a prescindere dall’inquadramento. È opportuno osservare come, nonostante il progressivo riavvicinamento delle due discipline, l’esercizio dello ius variandi nel pubblico impiego contrattualizzato si collochi ancora, per certi aspetti, al di fuori dello spazio costituzionale ritagliato per la libera iniziativa privata dall’art. 41, risultando vincolato, per quanto attiene specificamente ai rapporti di lavoro, ai principi di efficienza, trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa, nonché alla generale intangibilità delle dotazioni organiche[19]. Nella sua attuale versione, dopo le modifiche apportate dal D.Lgs. 150/2009, la previsione fa salvo il diritto del prestatore di lavoro ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto “[…] o quelle equivalenti nell’ambito della medesima area di inquadramento”. La dicitura in questione ha sostituito il precedente riferimento alla “classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”, la quale demandava espressamente l’individuazione delle mansioni equivalenti alle determinazioni contrattuali delle parti sociali[20]. Oggi tale rinvio resta implicito nella norma, dovendosi comunque ritenere demandato alla contrattazione collettiva il giudizio di valore circa la classificazione del personale pubblico: permane, dunque, la volontà di superare le rigidità della giurisprudenza e far fronte alla “strutturale difficoltà” del magistrato ad esercitare un efficace controllo sulle operazioni di mobilità affidando a categorie aprioristiche la risoluzione del contenzioso[21]. Entro le [continua ..]
Un cenno conclusivo merita l’analisi della pretesa risarcitoria avanzata dalla ricorrente per l’adibizione, presso l’ente destinatario, a mansioni inferiori rispetto a quelle appartenenti alla qualifica rivestita. I giudici, una volta accertato il nesso causale sussistente fra l’effettivo svuotamento delle mansioni e il conseguente danno da esso derivante, accolgono la pretesa risarcitoria della ricorrente, per ciò che attiene strettamente al profilo patrimoniale e professionale. La soluzione adottata pare condivisibile per due distinti ordini di ragioni. Per un verso, dal punto di vista fattuale, emerge la concreta lesione dell’interesse lavorativo della ricorrente alla piena esplicazione della propria professionalità, nonché all’acquisizione di una maggiore competenza decisionale ed organizzativa. Lo svuotamento progressivo delle mansioni cui la stessa era adibita, ha contribuito a svilirne l’operato non solo nell’attualità del suo espletamento, ma anche e soprattutto nella sua futura maturazione portando, di riflesso, alla lesione delle aspettative professionali e personali della lavoratrice. A riguardo, è parso evidente alla Corte il carattere grave e non futile del danno subìto dalla ricorrente, trattandosi di circostanze idonee a ledere, oltre una minima soglia di tollerabilità, la sua immagine professionale. Da altro punto di vista, la prova fornita dalla ricorrente, limitatamente alle fattispecie di danno dedotte, appare in linea con i canoni elaborati, sul punto, dalla giurisprudenza: nella pronuncia n. 5237 del 2011 i giudici della Suprema Corte di Cassazione, analizzando le diverse fattispecie di danno conseguenti alla dequalificazione professionale, hanno ritenuto necessaria per la prova del danno patrimoniale subito “[…]la deduzione dell’esercizio di una attività soggetta ad una continua evoluzione e l’indicazione delle specifiche aspettative frustrate”. Diversamente, non sarebbe risultata sufficiente, allo scopo, la mera dimostrazione dell’inadempimento datoriale, occorrendo comunque, in tutti i casi di demansionamento e dequalificazione professionale “[…] una specifica allegazione circa la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito”.