1. Premessa - 2. L'antefatto: la sistemazione data alla materia da Cass., S.U., n. 5072/2016 - 3. Alla radice del problema: la tutela del lavoratore contro l'abuso da successione di contratti di lavoro a termine nel settore del'impiego privato - 4. L'abuso da successione di contratti di lavoro a termine nel settore dell'impiego pubblico - 5. La sentenza della Corte di giustizia 7 marzo 2018, C-494/2016, Santoro vs Comune di Valderice - 6. Gli scenari e le prospettive - NOTE
Non sono trascorsi se non pochi mesi dal pronunciamento delle Sezioni Unite del 2016 [1], che la questione della tutela del dipendente pubblico in caso di abuso da successione di contratti di lavoro a termine è ritornata, nei medesimi termini, sul tavolo della Corte europea di giustizia [2]. Il nuovo arresto dei giudici di Lussemburgo, come era prevedibile, nulla aggiunge di nuovo rispetto a quanto già si sapeva. Tuttavia, la sentenza, e più l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Trapani, che ha dato abbrivio al procedimento, mettono in tensione gli snodi fondamentali attorno ai quali la materia era parsa trovare una sua stabile, se non anche definitiva, sistemazione nel diritto interno.
Nell’ordinamento nazionale – è noto – la materia si era assestata attorno alle seguenti cinque proposizioni. A) La direttiva comunitaria 70/1999/CE non impone la conversione del contratto quale misura di tutela contro gli abusi da successione di contratti di lavoro a termine né nel settore pubblico né in quello privato[3]. B) Un regime differenziato, quale quello vigente in Italia, che esclude la conversione del contratto di lavoro a termine solo nel settore pubblico e la ammette in quello privato, è legittimo sul piano costituzionale; lo è altresì su quello comunitario a condizione che esistano altre misure nel complesso energiche, proporzionate efficaci e dissuasive, in grado di garantire l’osservanza della direttiva 70/1999/CE[4]. C) Fra le predette misure, il diritto comunitario impone vi sia anche un risarcimento del danno e questo deve essere di non eccessivamente difficile o impossibile conseguibilità per il lavoratore[5]. D) Il risarcimento previsto dall’art. 36, comma 5, D.Lgs. 165/2001 può dirsi una misura comunitariamente adeguata se il danno è presunto nell’ane determinato nelquantum facendo ricorso ai criteri previsti dall’art. 32, comma 5, legge 183/2010, fermo restando che non deve essere preclusa al lavoratore la possibilità di ottenere un risarcimento del danno maggiore ove dia la prova della sua sussistenza con tutti i mezzi consentiti, comprese le presunzioni semplici [6]. E) Così interpretata, la legge italiana contempla misure «nel complesso, energiche, fortemente dissuasive per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato»[7].
Nel settore dell’impiego privato nazionale, la tutela del lavoratore contro gli abusi nell’utilizzo del contratto di lavoro a termine è affidata principalmente all’operare del meccanismo della nullità parziale, del quale la trasformazione a tempo indeterminato del contratto con clausola appositiva di termine illegittima è un’applicazione, o meglio, un effetto particolare [8]. È precisamente in forza dell’eliminazione della clausola illegittimamente appositiva del termine al contratto che il lavoratore diventa parte di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Ed è in ragione dell’efficacia ex tuncdella sentenza la quale accerta la nullità e trasforma il contratto di lavoro, che il lavoratore matura(va) diritti di natura patrimoniale per il periodo di inattuazione del rapporto successivo alla scadenza del termine illegittimamente apposto o che questi avessero natura retributiva, dipendendo dalla nuda esistenza del vincolo contrattuale di fatto inattuato, o che avessero natura risarcitoria, essendo un effetto della mora del datore di lavoro [9]. È vero che la nostra legge, quando enuncia la regola secondo la quale quella a tempo indeterminato è la forma comune di contratto di lavoro subordinato [10] e poi prescrive limiti inderogabili al ricorso al lavoro tempo determinato [11], pone degli obblighi in capo al datore di lavoro. È altresì vero che la violazione di quegli obblighi sarebbe astrattamente idonea a fungere da elemento costitutivo di una fattispecie di responsabilità contrattuale in capo al contravventore. Ma non è al risarcimento del danno, cioè alla possibilità di conseguire in natura il bene della vita negato dall’inadempimento datoriale o a un’attribuzione patrimoniale che compensi perdite o mancati guadagni, che la disciplina positiva affida le ragioni di tutela del lavoratore. E si intende bene il perché: per integrare un’ipotesi di responsabilità risarcitoria non basta la violazione di un dovere di comportamento. Ci vuole un danno risarcibile, e poi che questo sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del debitore (art. 1223 c.c.) e, infine, che il creditore non abbia contribuito a causarselo o che avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (art. 1227 c.c.). E sono [continua ..]
Se, nel settore dell’impiego privato, il meccanismo della nullità parziale, con i suoi effetti indiretti, mette in ombra, o meglio copre, la strutturale inadeguatezza del rimedio risarcitorio a garantire l’osservanza dei limiti inderogabili di legge al ricorso al contratto di lavoro a termine, nel settore dell’impiego pubblico, dove quel meccanismo non opera [14] per ragioni incensurate e incensurabili sia sul piano interno che comunitario [15], quella inadeguatezza riemerge appieno; con due conseguenze: sul piano interno, scopre una contraddizione nella disciplina sostanziale o materiale di tutela del lavoratore pubblico, la quale enuncia una regola di responsabilità in capo al datore di lavoro (art. 36, commi 1 e 5, D.Lgs. 165/2001) alla cui inosservanza non è agevole far seguire un danno risarcibile [16]; su quello comunitario, si risolve in un deficit di adeguamento del diritto interno rispetto alla direttiva 70/1999/CE, che, secondo una premessa per vero non indiscutibile del suo interprete istituzionale [17], pretenderebbe che, fra le misure volte a garantirne l’osservanza, vi fosse anche un risarcimento del danno in favore del lavoratore, di misura adeguata e di non impossibile o eccessivamente difficile dimostrazione e conseguimento. L’elaborazione interna più matura – è noto – ha creduto di uscire dall’impasse muovendosi dichiaratamente sul terreno della prova. Il lavoratore pubblico precarizzato, che non riuscisse a dimostrare di avere subito un danno (o che non ne avesse subito alcuno), riceverebbe comunque un ristoro, che il giudice dovrebbe accordargli in misura non inferiore a quella prevista dall’art. 32, comma 5, legge 183/2010. Solo ove intendesse conseguire un risarcimento maggiore sarebbe onerato della relativa dimostrazione e, naturalmente, della corrispondente allegazione [18]. Ma dacché, come si è cercato di mostrare, il problema è il danno e non la sua prova, il risultato cui si approda è la configurazione di un danno presunto nell’an, prima che nel quantum, che è assai dubbio possa predicarsi in via di «interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 del più volte citato accordo quadro» [19]. Quando le Sezioni unite della Corte di Cassazione affermano che la [continua ..]
La sentenza della Corte di Giustizia e, prima, l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Trapani calano sui nodi irrisolti della sistemazione interna della materia. Muovendo dalla corretta premessa che l’art. 32, legge 183/2010 ristora il lavoratore della perdita subita per il periodo che va dalla scadenza del termine illegittimamente apposto fino alla riammissione al lavoro a seguito della sentenza che ne dichiara la illegittimità, l’ordinanza di rimessione ravvisa un vuoto di tutela a danno del lavoratore pubblico, il quale, a differenza di quello privato, non può ottenere la conversione del contratto, né ottenere un risarcimento che tenga il luogo del posto di lavoro a tempo indeterminato non conseguito. A tutta prima può sembrare che il giudice rimettente abbia frainteso uno dei cardini della ricostruzione delle Sezioni unite, le quali escludono in radice che il lavoratore pubblico possa conseguire un ristoro corrispondente alla mancata conversione del contratto [42]. In realtà, l’ordinanza trapanese interroga il giudice comunitario sotto una prospettiva differente, anche se non completamente inedita: a ridondare in deficit di adeguamento del diritto interno rispetto alla direttiva comunitaria non sarebbe, di per sé stessa, l’impossibilità di conseguire un congruo risarcimento del danno per il lavoratore pubblico precarizzato, ma la disparità di trattamento con il lavoratore privato in uguale condizione. È esattamente quella disparità, e proprio perché giustificata sul piano del diritto interno, che deve essere sottoposta al vaglio del giudice europeo sotto il profilo della violazione del principio comunitario di equivalenza. Il tentativo di sostituire, anzi di sopravanzare, il controllo interno, costituzionale di eguaglianza [43], con quello esterno, comunitario di equivalenza si infrange contro il fin de non recevoir opposto dalla Corte di giustizia: il controllo di equivalenza postula una comparazione fra due discipline, una sola delle quali sia attuativa e attributiva di diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione; l’altra deve riguardare «situazioni analoghe» ma «di natura interna»; e non è questa la situazione da cui rampolla la disparità di trattamento sottoposta all’attenzione della Corte, perché la disciplina [continua ..]
Sotto qualunque prospettiva, da qualsivoglia punto di osservazione la si guardi, la vicenda resta un rompicapo, irrisolvibile senza il riconoscimento al lavoratore pubblico di un’attribuzione economica commisurata proprio al valore del posto di lavoro a tempo indeterminato [48]. Risolutivo, in tal senso, potrebbe essere un intervento del legislatore, che così eserciterebbe la legittima facoltà «di configurare danni punitivi come misura di contrasto alla violazione del diritto eurounitario» [49]. All’interprete non resterebbe, invece, che accontentarsi di soluzioni parziali. Ma se si vorranno minimizzare i costi dogmatici dell’operazione potrebbe essere utile abbandonare la prospettiva, in certo modo fuorviante, del danno-sanzione e valorizzare il frammento di disciplina contenuto non nel comma 5 ma nel comma 1 dell’art. 36, D.Lgs. 165/2001. La responsabilità della pubblica amministrazione datrice di lavoro dovrebbe essere affermata non a causa della generica «violazione di disposizioni imperative» (comma 5), ciò che evoca l’idea della sanzione civile, ma dell’inottemperanza all’obbligo generale di far fronte alle «esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario (…) esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato» (comma 1). A quel punto la commisurazione del danno, che corrisponderebbe esattamente all’inadempimento di quell’obbligo, potrebbe avvenire senza eccessive forzature sistematiche attingendo ai parametri che la legge stabilisce per la determinazione del danno da licenziamento illegittimo. Si obietterà che, comunque si ricostruisca il contenuto dei rapporti obbligatori fra amministrazione e lavoratore, l’immissione stabile in ruolo non potrebbe essere pronunciata dal giudice, essendo pur sempre insuperabile l’ostacolo dell’assenza del pubblico concorso. Ma in disparte la considerazione che non sempre il pubblico concorso manca o è necessario nelle vicende che riguardano i lavoratori precari [50], l’eventuale sua assenza (così come la mancanza di adeguata copertura finanziaria – art. 81 Cost.) non osterebbe all’affermazione del diritto all’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore assunto a termine per «esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario (…)»; semmai [continua ..]